Abazia San Basilide

L’abbazia sorge su un’antica strada che dalla città di Parma raggiungeva
la
Toscana, attraverso il passo del Lagastrello e il monastero di S. Salvatore
e S. Bartolomeo di Linari, importante luogo di sosta per viaggiatori e
pellegrini. Fondata tra il 1097 e il 1106 dalla congregazione benedettina
riformata di Vallombrosa, l’abbazia viene retta da questa famiglia
monastica fino al 1485. L’abbazia di San Basilide replica l’organizzamone
degli spazi e le forme architettoniche delle altre abbazie dello stesso
ordine e costituisce quindi il prototipo della fondazione vallombrosana,
con la chiesa dalla pianta a T orientata a est e il chiostro quadrato sul
fianco meridionale della chiesa. La chiesa dell’abbazia, realizzata al
principio del XII secolo in piccoli blocchi di pietra squadrata, consiste di
un’unica navata coperta a capriate con transetto sporgente e abside
semicircolare. Sul fronte della chiesa è stato aggiunto, sempre nel XII
secolo, un portico a due arcate e loggia superiore, con capitelli
raffiguranti i simboli degli evangelisti. Nell’interno della chiesa, semplice
e privo di decorazioni, da notare il pulpito per la proclamazione della
Parola ricavato nello spessore del muro laterale sinistro e la doppia scala
davanti all’altare che scende alla cripta, dove sono conservate le spoglie
di San Basilide. Sul fianco meridionale della chiesa si trova il chiostro, oggi in parte inglobato in edifici successivi e non visitabile, con il
refettorio (lato sud), la sala capitolare, la cripta sepolcrale per gli abati e l’accesso alla chiesa riservato ai monaci (lato
est). La fondazione dell’abbazia è legata alla figura di Bernardo degli
Uberti, abate di Vallombrosa, cardinale e legato apostolico di papa
Pasquale II, la cui nomina a vescovo di Parma nel 1106 segna il
passaggio della città dal sostegno all’Impero alla fedeltà al Papato.

La civiltà delle Terramare – The Terramare civilization

La civilta delle Terramare fiorì nel 1800-1300 a.C. circa, un periodo in cui il mondo stava passando dall’età della pietra all’età del bronzo.

Ricostruzione grafica della Terramara di Montale (disegno di Riccardo Merlo) – Graphic reconstruction of Montale’s Terramara (drawing by Riccardo Merlo)

La cultura delle Terramare si sviluppò nella parte centrale della Pianura Padana, in particolare in Emilia Romagna ed era caratterizzata dall’uso della tecnologia del bronzo. Questa veniva utilizzata principalmente dalla popolazione che lavorava i metalli per creare oggetti utili come utensili, armi, gioielli e oggetti rituali. Si ritiene che il popolo delle Terramare si dedicasse anche all’agricoltura e all’allevamento. Inoltre, estraevano minerali di ferro per la creazione di utensili e armi di bronzo.

La popolazione delle Terramare viveva in villaggi di palafitte costruiti in legno e mattoni di fango circondate da fossati.

Terramara di Montale (Modena) ricostruzione di abitazioni – Terramara of Montale (Modena) reconstruction of housing

Il nome terramara deriva da terra marna, termine utilizzato dagli agronomi del XIX secolo per designare il terriccio fertilizzante che si ricavava dai depositi archeologici pluristratificati risalenti all’età del Bronzo. Questi depositi, prodottisi nell’età del bronzo durante la vita dei villaggi con il progressivo sovrapporsi dei resti delle abitazioni, formavano delle collinette, alte fino a 4-5 metri, che costituivano ancora nel XIX secolo un tratto caratteristico del paesaggio padano. Nel corso dell’Ottocento queste collinette furono per la maggior parte distrutte dall’attività di cava volta al recupero del terriccio, che veniva venduto come concime destinato prevalentemente allo spargimento sui prati stabili, dai quali si ricavava il foraggio. Il termine terramara ha quindi un’origine agronomica, ma successivamente esso restò in uso nella letteratura archeologica ad indicare, fino ad oggi, i villaggi dell’età del bronzo dell’area emiliana.

Benchè la popolazione delle Terramare vivessero in case e villaggi costruiti in legno e mattoni di fango, erano considerati una civiltà avanzata rispetto ad altre dell’epoca.

I Terramare erano principalmente agricoltori e fabbri. Erano abili artigiani e vivevano in piccoli insediamenti lungo le rive del mare e dei fiumi. Avevano buoni rapporti con altre civiltà, come i Greci micenei e gli Ittiti, che commerciavano con loro per ottenere manufatti come oggetti in rame e beni di lusso come vino e olio. Erano anche abili nella ceramica e nella tessitura.

Sebbene si sappia poco della loro cultura, gli archeologi hanno scoperto diversi oggetti in bronzo che rivelano molto su di loro. Si tratta di spade, pugnali, scudi, asce, ciotole, pentole e utensili da cucina, oltre a gioielli e oggetti decorativi. Questi manufatti forniscono affascinanti informazioni sullo stile di vita di questa antica cultura.

Gli abitanti della civiltà delle Terramare svilupparono anche sofisticati sistemi di irrigazione che permisero loro di coltivare tutto l’anno. Costruirono dighe per proteggere i loro campi dalle inondazioni e coltivarono una varietà di colture tra cui grano, orzo, uva e olive. I Terramare erano anche abili pescatori e marinai che percorrevano lunghe distanze per commerciare con le comunità vicine. La scoperta di alcuni relitti di navi nel Mar Mediterraneo ha dimostrato che navigavano fino all’isola di Creta e al Nord Africa.

The Terramare civilization flourished in about 1800-1300 B.C., a period when the world was transitioning from the Stone Age to the Bronze Age.

The Terramare culture developed in the central part of the Po Valley, particularly in Emilia Romagna, and was characterized by the use of bronze technology. This was mainly used by the people who worked metals to create useful objects such as tools, weapons, jewelry and ritual objects. It is believed that the Terramare people also engaged in agriculture and animal husbandry. They also mined iron ore for the creation of bronze tools and weapons.

The Terramare people lived in villages of stilts built of wood and mud bricks surrounded by ditches.

The name terramara comes from terra marna, a term used by 19th-century agronomists to designate the fertilizing loam that was obtained from multi-layered archaeological deposits dating back to the Bronze Age. These deposits, produced in the Bronze Age during the life of villages as the remains of dwellings gradually overlapped, formed knolls, up to 4-5 meters high, that were still a characteristic feature of the Po Valley landscape in the 19th century. During the nineteenth century these knolls were mostly destroyed by quarrying activity aimed at the recovery of topsoil, which was sold as manure intended mainly for spreading on stable meadows, from which fodder was made. The term terramara thus has an agronomic origin, but later it remained in use in archaeological literature to indicate, to this day, Bronze Age villages in the Emilian area.

Though the Terramare people lived in houses and villages built of wood and mud bricks, they were considered an advanced civilization compared to others of the time.

The Terramare people were mainly farmers and blacksmiths. They were skilled craftsmen and lived in small settlements along the shores of the sea and rivers. They had good relations with other civilizations, such as the Mycenaean Greeks and Hittites, who traded with them to obtain artifacts such as copper objects and luxury goods such as wine and oil. They were also skilled in pottery and weaving.

Although little is known about their culture, archaeologists have discovered several bronze objects that reveal much about them. These include swords, daggers, shields, axes, bowls, pots, and cooking utensils, as well as jewelry and decorative items. These artifacts provide fascinating information about the lifestyle of this ancient culture.

The inhabitants of the Terramare civilization also developed sophisticated irrigation systems that enabled them to farm year-round. They built dams to protect their fields from flooding and cultivated a variety of crops including wheat, barley, grapes and olives. The Terramare were also skilled fishermen and sailors who traveled long distances to trade with neighboring communities. The discovery of some shipwrecks in the Mediterranean Sea has shown that they sailed as far as the island of Crete and North Africa.

L’immacolata Concezione e la Luna

Cappella dell’Immacolata Concezione presso la Chiesa di Santa Maria dell’Incoronata di Martinengo (BG)

“Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle” (Apocalisse di Giovanni Evangelista).

Le rappresentazioni dell’Immacolata Concezione che calpesta la luna o il serpente è presente soprattutto nell’iconografia occidentale di fine Rinascimento. Sovente la Vergine è raffigurata anche con il capo cinto di dodici stelle.

In questa particolare raffigurazione, attribuita ai pittori del gotico cortese della scuola bembesca attivi nel XIV secolo, troviamo la luna rappresentata ai piedi della Madonna nelle sue diverse fasi: luna nera, luna piena e mezza luna (da sinistra a destra).

Il simbolo lunare, nella forma di una mezza luna posta sul capo, è utilizzato anche nelle raffigurazioni delle divinità pagane Artemide/Diana e della dea egizia Iside.

Artemide dea greca protrettrice della verginità e della pudicizia.
Iside dea egizia della vita, della fertilità della guarigione.

Sembra che la scelta degli artisti in questo caso sia di mantenere un simbolo appartenuto al pre-cristianesimo che viene assoggettato ponendolo sotto i piedi della Vergine Maria. Maria la sposa vergine di Dio si innalza al di sopra della luna dominandola con la sua purezza.

Maria pertanto in questa particolare iconografia è espressione di forza dominatrice del caos: sole che si erge al di sopra delle tenebre, luce che pone fine alla mutevolezza delle ombre qui rappresentate con le fasi lunari.

San Pellegrino Terme – Il Casinò

Magnifico esempio di stile Liberty, il Casinò di San Pellegrino Terme sorge all’inizio del ventesimo secolo, tra il 1904 ed il 1906, e viene aperto nel luglio 1907. Costruito ad opera dell’architetto Romolo Squadrelli in prosecuzione dei porticati della Fonte Termale, presenta una facciata imponente e al tempo stesso leggiadra, ricca di stucchi, fregi e bassorilievi, opera dello scultore Paolo Croce.

La fantastica facciata, decorata con altorilievi in pietra artificiale, gruppi allegorici, mascheroni, elementi antropomorfi, busti umani, putti, motivi floreali in abbondanza e artistiche lanterne in ferro, si eleva con il grande pennone in ferro battuto del Mazzucotelli, sorretto da telamoni, simboli della fatica umana; alla base vi sono affrescati i cervi volanti che, come le farfalle, simboleggiano l’art-nouveau.

Il lavoro d’équipe, che vede lo Squadrelli collaborare con importanti artisti dell’epoca dà esiti felici anche all’interno dove, in un gioco allegorico di rimandi al luogo e alle proprietà delle sue acque, è sviluppato il tema della ‘joie de vivre’, negli affreschi del Malerba come nei rilievi del Bernasconi, nelle sculture del Vedani o nelle bellissime vetrate di Beltrami e Buffa o, infine, nell’arredo, interamente progettato da Eugenio Quarti.

Di particolare interesse è la facciata con le due alte torri che richiama il precedente Casinò di Montecarlo di Charles Garnier; la ricca componente decorativa con la sua forte carica simbolica comprende, fra l’altro, i portalampade e il pennone in ferro battuto di Alessandro Mazzucotelli, gli altorilievi ai lati della porta centrale in cemento trattato “a cotto” con scene bacchiche di Giulio Croce e il fregio dipinto con il motivo dei cervi volanti generalmente attribuito a Francesco Malerba.
Con le Terme ed il Grand Hotel, il Casinò dall’inizio del ‘900 contribuì a realizzare un efficace polo di attrazione per i numerosi e facoltosi ospiti, che a San Pellegrino potevano trovare grandi possibilità di svago e di divertimento. Era un mondo ‘fiabesco’, popolato da regine e principesse, ministri e diplomatici, personalità della finanza, dell’esercito, dell’arte e della cultura, provenienti da Roma, Parigi, Vienna, Berlino, Pietroburgo, Londra, Il Cairo.

Chiuso e riaperto a più riprese, nell’ambito di vari progetti, tesi, da un lato, alla disciplina del gioco d’azzardo e, dall’altro, alla valorizzazione delle stazioni termali e climatiche italiane, cessa definitivamente l’attività nel 1946.

Il magnifico edificio del Casinò costituisce ancor oggi una impareggiabile testimonianza per la fantasia compositiva del complesso, per l’eleganza dell’architettura e per le invenzioni delle decorazioni (by Comune San Pellegrino Terme).

https://www.comune.sanpellegrinoterme.bg.it/turismo/casino/

Basilica di Sant’Ambrogio Milano

La basilica di Sant’Ambrogio (basilega de Sant Ambroeus in dialetto milanese), il cui nome completo è basilica romana minore collegiata abbaziale prepositurale di Sant’Ambrogio[1] (nome originario paleocristiano basilica martyrum), è una delle più antiche chiese di Milano. Si trova in piazza Sant’Ambrogio e rappresenta non solo un monumento dell’epoca paleocristiana e romanica, ma anche un punto fondamentale della storia milanese e della Chiesa ambrosiana. È tradizionalmente considerata la seconda chiesa per importanza della città dopo il Duomo di Milano. Insieme alla basilica prophetarum, alla basilica apostolorum ed alla basilica virginum, la basilica martyrum è annoverata tra le quattro basiliche ambrosiane, ovvero quelle fatte costruire da sant’Ambrogio.

Edificata tra il 379 e il 386 in epoca romana tardoimperiale per volere del vescovo di Milano Ambrogio, nell’epoca in cui la città romana di Mediolanum (la moderna Milano) fu capitale dell’Impero romano d’Occidente (ruolo che ricoprì dal 286 al 402), venne quasi totalmente ricostruita assumendo l’aspetto definitivo tra il 1088 e il 1099. Della chiesa originale paleocristiana del IV secolo la nuova basilica dell’XI secolo ereditò scrupolosamente la pianta: tre navate absidate senza transetto con quadriportico antistante. Il suo complesso architettonico è composto dal monastero di Sant’Ambrogio, dalla canonica di Sant’Ambrogio, dalla chiesa di San Sigismondo e dalla basilica. È una delle basiliche paleocristiane di Milano.

Notevoli, da un punto di vista artistico, sono il portale dell’ingresso principale della basilica, che è caratterizzato da una minuziosa decorazione a rilievo, l’altare di Sant’Ambrogio, realizzato tra l’824 e l’859 da Vuolvino su commissione dell’arcivescovo di Milano Angilberto II e avente un prezioso paliotto aureo in rilievo con pietre incastonate su tutti e quattro i lati, il ciborio di epoca ottoniana, che si poggia su quattro colonne in porfido rosso e che presenta, sulle quattro facce, altorilievi in stucco, nonché il catino absidale, che è decorato da un mosaico che risale all’XI secolo, e il sacello paleocristiano di San Vittore in ciel d’oro, che risale al V secolo e che ha una volta completamente decorata da foglia d’oro. Il sacello di San Vittore in ciel d’oro ha le pareti laterali ricoperte da un mosaico dove sono raffigurati sei santi, tra cui sant’Ambrogio; quest’ultima è la più antica raffigurazione conosciuta del santo milanese (Wikipedia).

Santa Giulia Brescia Museo e Area Archeologica

Il Museo di Santa Giulia è il principale museo di Brescia, situato in via dei Musei 81/b, lungo l’antico decumano massimo della Brixia romana. È ospitato all’interno del monastero di Santa Giulia, fatto erigere da Re Desiderio in epoca Longobarda e variamente ampliato e modificato in più di mille anni di storia.

La zona sottostante al Museo è ricca di reperti archeologici di varie epoche, in maggioranza appartenenti all’epoca romana e ottimamente conservati, in particolare le Domus dell’Ortaglia. Fanno parte del museo tutte le strutture dell’antico monastero, fra cui la chiesa di Santa Maria in Solario, il coro delle monache e la chiesa di Santa Giulia.

Nel museo sono conservati migliaia di oggetti e opere d’arte spazianti dall’età del Bronzo all’Ottocento provenienti soprattutto dal contesto cittadino e dalla provincia di Brescia, che ne fanno un vero e proprio museo cittadino, le cui tematiche di approfondimento vertono principalmente sulla storia della città di Brescia e del suo territorio. Tra le numerose opere d’arte si ricordano soprattutto la Vittoria Alata, la Croce di Desiderio, la Lipsanoteca e il settore “Collezionismo e arti applicate”, dove sono custodite tutte le collezioni private donate al museo tra il Settecento e L’Ottocento.

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Museo_di_Santa_Giulia

La top 10 delle più grandi scoperte archeologiche del 2019 — Il Fatto Storico

È difficile stilare un elenco delle dieci scoperte più importanti dell’anno. Dalle ricche tombe in Egitto all’incredibile storia della donna scriba, dai nuovi affreschi romani ai sacrifici e alle misteriose offerte precolombiane, ecco una selezione dell’anno 2019.

La top 10 delle più grandi scoperte archeologiche del 2019 — Il Fatto Storico

Volti al vento

A quasi 3 anni dal devastante terremoto che ha colpito il Centro Italia, Norcia è una città che mostra ancora i segni del cataclisma che l’ha colpita. La Basilica di San Benedetto letteralmente sventrata, gli edifici del centro storico inagibili e pericolanti. Percorrendo le strade martoriate della cittadina si rimane sgomenti, attoniti, impietriti dalla devastazione provocata dal terremoto. Non sembra possibile che sia vero, deve essere un film, un set cinematografico, stanno girando di certo un documentario, questo non è vero, deve essere un documentario sui bombardamenti in Afganistan, in Iraq…non può essere vero. E’ quello che continua a girarti in testa mentre guardi tutto quell’orrore. Ma poi vedi qualcosa che non può essere finto, non può essere un’invenzione cinematografica: volti. Volti che vibrano di una vita che non è più loro, volti stampati su magliette una volta candide e ora ingialite dal tempo, volti accarezzati dal vento, volti di bambini, tanti bambini, troppi bambini, volti di nonne, di mamme di ragazze adolescenti, volti uniti dalla tragedia, vite spezzate, vite sepolte, sepolte sotto le macerie della cottadina di Pescara. E’ troppo il dolore che è presente in questi luoghi, un dolore che non deve essere nascosto, un dolore che va gridato a squarciagola, denunciato, perchè la vita deve tornare a scorrere per le strade di quelle cittadine perchè non si può lasciar stare, dimenticare, perchè chi vivrà per sempre con l’orrore di quei ricordi non può continuare a vivere tra le macerie! Tutto questo è disumano, intollerabile, indecente! Ed è così che lo sgomento viene sostituito dalla rabbia, una rabbia che sta trovando sfogo in queste righe perchè non si può dimenticare, perchè bisogna fare qualcosa, qualunque cosa affinchè queste morti non siano vane, affinchè dalla distruzione rinasca la vita. NON DIMENTICHIAMOCI DI LORO. I PAESI COLPI DAL TERREMOTO DEVO TORNARE A VIVERE. LA RICOSTRUZIONE DEVE PARTIRE SUBITO!

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Santa Brigida – Santuario della Madonna Addolorata

 

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La cappella originaria risale al X secolo e fu forse edificata sui resti di un precedente edificio sacro pagano di probabile origine celtica. L’edificio attuale è la risultante di una serie di trasformazioni che si sono succedute nell’arco di circa un millennio, caratterizzate da vari ampliamenti e abbellimenti in relazione al suo ruolo di “chiesa matrice” della Valle Averara. La chiesa di Santa Brigida, staccatasi dalla pieve di San Pietro di Primaluna in Valsassina, nel corso del XIV secolo fu infatti la prima parrocchia dell’antica Valle Averara.

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L’edificio è a una sola navata, divisa in cinque campate a sesto acuto, sorrette da pilastri in pietra; la copertura è a capanna, sostenuta da travi in legno decorato e da un assito a vista; due balaustre in marmo policromo separano la navata dal presbiterio, la cui volta è decorata da stucchi barocchi. Il campanile, a cuspide piramidale, ha la parte inferiore parzialmente inglobata nella chiesa e presente una piccola cella campanaria a quattro aperture. Sul lato meridionale si apre un porticato coperto dallo spiovente del tetto della chiesa e sorretto da tre pilastri e quasi interamente decorati da affreschi. Questi affreschi, al pari di quelli che adorano le pareti interne, risalgono XII secolo e sono ascrivibili ad frescanti locali, tra cui Pietro de Asenelis (ciclo del portico) e Angelo Baschenis (dipinti della cappella di San Nicola da Tolentino).

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A seguito della costruzione della nuova parrocchiale, la chiesa ha assunto il nuovo titolo di Santuario della Madonna Addolorata.

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L’antica comunità della Valle Averara, insediatasi sui monti al confine con la Valtellina la Val Sarsina, in un mondo di transumanza di persone, di merci e di animali che rendevano i monti luoghi di continui passaggi e scambi e non barriere di divisione, vide sorgere in tempi antichissimi la chiesa di Santa Brigida, nome che nel tempo venne dato al Comune.

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Questa chiesa divenne col tempo una delle sette pelle la cappellani e culturale, dipendenti dalla chiesa madre di San Pietro di prima luna in Val Sarsina, come dalla scarto Lario attribuito a Goffredo da Bruxelles ero. In un atto rogato dal notaio Antonio della Torre di prima luna il 7 aprile 1368 si dice che nella prima postura della piede pieve di San Pietro di prima luna già operavano sette cappellanie curate, di pendenti dalla Chiesa madre di S. Pietro di Primaluna in Valsassina, come dal cartolario attribuito a Goffredo de Bussere. In un atto rogato dal notaio Antonio della Torre di Primaluna il 7 aprile 1368 si dice che nella prevostura della pieve di S. Pietro di Primaluna già operavano sette “cappellani li quali hanno cura delle anime per se“. Tali cappellani delle chiese curate risiedevano presso le loro chiese, consolidando sempre più il distaccamento dalla chiesa matrice. Tra queste chiese c’era Santa Brigida di Averara e Santa Maria di Valtorta.

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A loro volta nei secoli poi, le chiese della Valle Averara si staccheranno, con decreto vescovile, dalla matrice di Santa Brigida: così il 26 luglio 1456 le chiese di Santa Margherita di Curzio e di Sant’Ambrogio di Ornica, nel giugno del 1523 quella di San Giovanni Battista di Mezzoldo, il 23 ottobre 1566 quella di San Giacomo di Averara e nel 1611 quella di San Bartolomeo di Cassiglio. L’antica dipendenza della chiesa di San Pietro di Primaluna, fece sì che la chiesa di Santa Brigida, come tutta la Valle Averara, forse parte della diocesi di Milano e si officiasse secondo il rito Ambrosiano; e questo a tutt’oggi. Particolare è la dedicazione all’irlandese Santa Brigida di Kildare (453-524 ca), abbadessa e protettrice dell’Irlanda, che è santa di un mondo celtico che si rifà, nel nome di Brigida, anche ad antiche divinità. È una santa propria di un mondo montano agricolo pastorale ricordata da antichi racconti e leggende. La nostra chiesa di Santa Brigida fu costruita in luogo alto sulle frazioni abitate, ben isolato e lontano.

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Oggi la raschiatura e la scrostatura fatta nei restauri alla parete di monte dell’antica chiesa, permette di comprendere la trasformazione, i significativi ingrandimenti ed innalzamenti avvenuti nel tempo e ben segnati dalla linea di stacco delle diverse murature. Su tale parete si può leggere che dal secolo XIV la torre campanaria era inserita nel vivo della navata, che ben cinque porte di passaggio d’entrata, di diverse fatture e dimensione, sono state tamponate, così come cinque finestre e due feritoie diagonali, più antiche. Oggi dal lato nord, la la chiesa prende luce solo da un una lunetta del presbiterio. Pur nell’adeguamento, nell’ampliamento e nell’innalzamento della chiesa, l’orientamento canonico est-ovest non è cambiato. A valle il livellamento è stato ottenuto con ripiena artificiale che rende più slanciato il muro absidale.

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In facciata un portale in pietra sagomata e lavorata è opera secentesca, come pure l’ampia finestra che lascia però i resti di un rosone chiuso per l’ulteriore rialzo e che fa capire che il livello della chiesa era più basso, se San Carlo nella sua visita, il 23 ottobre 1566, ci dice che entrando in chiesa ” si scendevano cinque gradini “. Interessanti in facciata anche le antiche aperture delle finestre soprattutto della feritoia che dovrebbe riferirsi alla chiesa primitiva. Nel XV secolo ci fu l’innalzamento della chiesa e la costruzione del portico in facciata sud. Il portico, elemento ed ambiente con simile in tutte le antiche chiese battesimali dell’alta valle, era inizialmente più basso, ma venne poi sopraelevato, come ci dimostra la porta laterale d’entrata, quella detta degli uomini, oggi chiusa e tagliata dal pavimento. Il portico, che dava sul cimitero, era il luogo dell’assemblea degli “homini liberi ed vicini” (ossia delle vicinie, delle frazioni) che ivi si trovavano per deliberare sulle cose del Comune e della chiesa, che era retta da due sindaci e da un tesoriere eletti ogni due anni dall’assemblea dei capifamiglia.

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La chiesa fu sicuramente consacrata il 7 agosto 1468 dal monsignor Paolo Neapolitano, vescovo suffraganeo del cardinale di Milano Stefano Nardini. Non è certa, né documentata la tradizione, tramandateci anche con iscrizioni recenti, secondo cui San Carlo Borromeo, nella sua prima visita pastorale dalla sera del 23 ottobre 1566, riconsacrò la chiesa. La visita pastorale è ricordata con un affresco oggi riportato sulla parete di fondo, che ci presenta lo stemma del santo cardinale e ci dà notizia della visita pastorale, ma nulla della riconsacrazione. La seconda visita pastorale di San Carlo avvenne l’8 luglio 1582. Nella relazione conseguente, si parla della presenza nella chiesa di quattro altari, oltre il maggiore: quello della Madonna, l’altare di San Gottardo, l’altare nella cappella di San Nicola e quello di Sant’Agata. Altre visite pastorali vennero effettuate al tempo di San Carlo da parte dei suoi delegati, che dovendo seguire l’attuazione di quanto il cardinale aveva prescritto. Interessante la descrizione che il delegato vescovile Leonetto Chiavone fa dopo la visita del luglio 1569. Egli ci dice che la chiesa alle pareti per lo più ornate di affreschi, che ha quattro porte ed una dà nella casa del curato, che le finestre sono otto con due aperture circolari. La chiesa era pavimentata e dotata di tre campane. La porta del campanile, come oggi, dava sulla navata e il tetto era retto, sempre come oggi, da quattro arcate coperte con travi ed assito dipinti. Il tetto era coperto da “piode”, ardesia. Sull’arco trionfale era posto un bel Crocefisso, oggi ancora presente sull’altare maggiore. Due erano le sacrestie. Al fianco dell’altare maggiore, al lato evangelo vi era la cappella della Madonna e in lato epistola la cappella di San Gottardo. Con accesso dal presbiterio esisteva anche un ambiente sepolcrale che era l’ossario e sulla parete sopra l’ingresso era raffigurata la figura della morte con l’arco in mano e che si trascinava legate in fila le vittime già cadute.

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Affreschi macabri sono visibili ancora nel portico e, sotto l’altare, con ingresso esterno, esiste ancora l’ambiente seminterrato dell’ossario. Mancava in chiesa il pulpito e la sistemazione della fonte battesimale. Importante per la chiesa di Santa Brigida la concessione per gli abitanti di una particolare indulgenza. La Bolla, firmata da San Carlo datata 3 dicembre 1575, è conservata presso la casa parrocchiale. Alla fine del ‘500 venne costruita la Cappella del Battistero con accesso dalla parete nord appena dentro l’entrata. Nella ristrutturazione del ‘900 la cappella venne abbattuta ed oggi esternamente si può vedere murato l’arco d’accesso a detta cappella. Il 24 giugno 1611 ci fu la visita del cardinale Federigo Borromeo e tra le prescrizioni ci fu la sistemazione nella chiesa della tomba della famiglia De Pezzijs, la famiglia del grande pittore Giampaolo detto Cavagna. Alla fine del seicento risalgono le sistemazioni barocche degli altari laterali, con colonne in finto marmo e stucchi, come nel 1653 si era abbellito in stucco l’arco trionfale e l’arco di fondo con statue in stucco raffiguranti Sant’Ambrogio e Santa Brigida, come pure si erano poste le statue, sempre in stucco, di San Giuseppe e Sant’Antonio da Padova alla base della prima arcata. E’ con tali interventi che purtroppo vanno persi i cicli d’affresco della volta e delle pareti del presbiterio raffiguranti la storia di Santa Brigida. Nel 1737 venne innalzato esternamente al limite del cimitero, di fronte al portico, una grande cappella ossario con altare, dove fu concesso celebrare la messa e dove fu traslata la statua della Vergine Addolorata. Tale costituzione fu abbattuta nel 1925. Il 25 giugno 1754 ci fu la visita pastorale del cardinale Giuseppe Pozzo Bonelli, salito in alta valle a consacrare le chiese di Cusio ed Ornica, che nella sua relazione tra l’altro ci dice che nella chiesa gli altari sono tre: quello della Madonna del Rosario, quello di San Gottardo e quello di San Carlo. Il cardinale Pozzo Bonelli fu l’ultimo vescovo di Milano a compiere una visita pastorale in Valle Averara. Il 22 ottobre 1784 il vescovo di Bergamo Dolfin, riguardo una diatriba tra l’arciprete di Santa Brigida e il parroco di Averara, ricordava il curato di Santa Brigida che la parrocchia era passata alle dipendenze della Diocesi di Bergamo. Nel 1858 la chiesa venne dotata di un eccellente organo a Deodato Bossi, oggi nella nuova parrocchiale. Nel 1925 la nuova parrocchiale prese il posto dell’antica, che rimase solitaria come Santuario della Madonna Addolorata. Vennero abbattute la casa del curato a nord e l’ossario dell’antico cimitero. Con gli anni crebbe il centro estivo del patronato San Vincenzo che adottò e rianimò per anni l’antica parrocchia di Santa Brigida.

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Il primo incontro con la chiesa di Santa Brigida avviene sotto l’antico portico dove si può leggere la trasformazione e le aggiunte architettoniche della chiesa, ma dove ci accolgono importanti cicli di affreschi che sono solo una parte di quelli originali. Alle pareti immagini di Sant’Antonio Abate, di Sant’Ambrogio, di San Defendente soldato, di San Cristoforo che giganteggia, di San Paolo, di Santa Margherita, di Santa Caterina e di San Giovanni Battista ci dicono della devozione degli antenati. Numerose sono le maestà della Vergine con il Bambino è molta e molto fiorentina è l’Annunciazione alla testata del portico. La Deposizione nell’arco soglio di un’antica tomba, sempre alla testata del portico, è un riporto da sopra l’ingresso del primo ossario dal presbiterio. Anche i tre pilastri sono affrescati e firmati dall’autore, il pittore Petrus de Asenelis con la data marzo 1444. Della famiglia degli Asinelli pittori e affrescato pure lo stemma, sopra l’antica porta degli uomini, oggi murata. Gli affreschi erano voti devozionali realizzati dai vari e numerosi artisti della Valle Averara e in modo speciale di Santa Brigida, come i Baschenis, i Guerinoni, gli Asinelli, gli Scanardi, gli Scipioni e i Pezziis.

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Sul fondo del portico l’affresco della Vergine con il Bambino alla figura allegorico della morte sono i resti di un’antica cappelletta esterna della Madonna e di quel ciclo di affreschi macabri verso l’ossario sotto il presbiterio. Entrati in chiesa osserviamo il presbiterio, cui si accede salendo tre gradini di marmo nero della locale Valle dei Gatti e che è delimitato dalla navata da balaustra sempre marmo nero decorato con intarsi floreali. L’abside a fondo dritto era affrescata con una grande scena della Crocifissione, di cui rimane parte dei due crocifissi accanto a Gesù, che invece è scomparso, mentre ai piedi della croce rimane parte della schiera dei dolenti. L’opera si può riferire ad un buon pittore della fine del ‘400. Ai piedi ed ai lati di questo grande affresco, vi sono due riquadri affrescati: quello di destra raffigurante la Madonna tra San Rocco e San Sebastiano, datato 5 aprile 1483 e con un’invocazione contro ogni pestilenza e quello di sinistra con il Cristo nell’avello con ai lati San Lorenzo e Sant’Onofrio, datato 1478. La preghiera delle piaghe di Gesù scritta in caratteri gotici sull’avello, è un testo che ritroviamo in altri affreschi in valle. Questi due riquadri risentono di un gusto tardo gotico e facevano parte del primo ciclo di affreschi coperti dalla Crocifissione. Nella lunetta, sempre dell’abside, è stato inserito all’inizio del ‘900 il dipinto raffigurante la deposizione di Gesù opera del pittore Domenighini, primo direttore della scuola d’arte Fantoni di Bergamo. Lungo le pareti c’erano continui cicli di affreschi, ora ridotti a pochi lacerti, come l’immagine della Vergine sul muro di rientranza del campanile o quella di San Sebastiano nella cappella un tempo di Sant’Agata, ora della Madonna, o di Sant’Antonio Abate sulla lesena presso il presbiterio, dove purtroppo si è per tutto il ciclo della vita di Santa Brigida. Molto particolare e interamente affrescata la cappella di San Nicola da Tolentino nella seconda campata a sud. Gli affreschi denotano un doppio strato di pitture. Più antica, sullo sfondo della cappella, la sequenza di otto figure, raffiguranti il Cristo e gli Apostoli, come le figure di San Sebastiano e San Caterina all’attacco dell’arco soglio della cappella. Sopra tali affreschi vennero stesi nuovi ed è in riquadri si narra la vita di San Nicola. Alla sommità in terna dell’arcata ecco il Cristo Pantocratore, in mandorla e nimbo, attorniato dai simboli dei quattro evangelisti e nel primo intradosso dell’arco, da una parte e dall’altra, i quattro dottori della Chiesa: Sant’Ambrogio, San Gerolamo, San Gregorio e Sant’Agostino. Al sommo della parete, la scena della crocifissione e ai lati i primi riquadri con le scene della vita del Santo, spiegata pure, nella cornice, in lingua volgare. L’opera viene generalmente attribuita ad Angelo Baschenis, autore con tanto di firma degli affreschi nella chiesa di Ornica nel 1485.

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Tra le altre opere merita attenzione il bel Crocifisso cinquecentesco sull’altare maggiore, opera di validissimo scultore locale. Agli altari laterali, a destra il quadro con la scena della decorazione di San Giovanni Battista è opera veramente eccellente e unanimamente riferita a Carlo Ceresa (1609-1679). Molto bello anche il piccolo dipinto cinquecentesco del Cristo Risorto sulla cartina del tabernacolo. Alla parete la tela raffigurante il martirio di Sant’Agata è buono opera di fine ‘500. All’altare di sinistra domina la palla seicentesca di maniera, raffigurante Sant’Antonio di Padova. Sulla parete nord, l’ancona lignea intagliata ed indorata è una buona opera settecentesca di bottega locale, proveniente dall’oratorio di San Lorenzo a Carale. La statura della Madonna Addolorata, posta in tale ancona, venne acquisita nel 1935. Alla parete dell’ultima campata nord, il bel dipinto raffigurante la Madonna in Gloria con il Bambino e ai piedi San Carlo e San Giovanni Battista e lo stemma del donatore Goglio, è chiaramente opera della bottega di Carlo Ceresa, anche se sente un po’ troppo della mano degli allievi. Sulla parete di fondo infine notiamo lo stemma di San Carlo, affresco riportato e che era stato eseguito in occasione della visita dell’ottobre 1566 solennemente ricordata.

 

 

la leggenda delle Anguane – L’incantevole Val Pusteria

Le anguane, sono chiamate anche acquane, langane, ecc. comunque siano chiamate queste creature esse sono “donne delle acque”, legate cioè alle sorgenti d’acqua (e di laghi e laghetti nelle Dolomiti Bellunesi ce ne sono circa un centinaio). Si narra che esse furono probabilmente le ultime donne celtiche, che per fuggire la dominazione romana, si rifugiarono nelle grotte vicino ai laghi e torrenti, (esse sono chiamate anche “angane”, il loro nome celtico).
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